Dialogo con
Milo De Angelis su «Niebo»
Dialogo con
Claudio Damiani su «Braci»
DIALOGO CON
MILO DE ANGELIS SU «NIEBO»
a cura
di Carla Gubert
Niebo in polacco significa cielo. Immagino sia un omaggio al
poeta di Varsavia Boleslaw Lesmian, i cui versi sono rivolti sovente
al "vuoto nel cielo" (come in L'anima nei cieli,
tradotta sull'ultimo numero). Allo stesso tempo tu attribuisci alla
parola niebo, nel sesto numero, una significazione più complessa:
«Ancora una volta voglio ripetermi che il cielo non è la cupola
della terra, ma è ciò che la terra non può sopportare e allontana
da sé». Perché questo nome di battesimo per la nuova rivista?
Quando ero al Liceo Berchet di Milano, il mio professore Francesco
Leonetti, dirigente del gruppo maoista "Servire il popolo", dichiarò
che in poesia bisognava abolire la parola "cielo". Proprio così,
la parola "cielo". Ero solo un ragazzo, ma sentivo che, se una creatura
impoetica come Leonetti voleva abolirla, avrebbe potuto diventare
la mia. A quella parola cominciai così ad affezionarmi. Nello stesso
periodo l'ho ritrovata nei poeti che stavo leggendo: Osip Mandel'stam
(nieba) e poi in quel geniale e sconosciuto poeta che era
Boleslaw Lesmian (niebo). In entrambi i casi non si trattava
di un cielo cattolico, di un cielo come regno da abitare, bensì
di quel tempo assoluto che si manifesta in piena contingenza, che
irrompe nel cortile di una scuola, nel passo di un gatto, nello
scarico di un lavandino. Tutto cominciò dunque in quegli anni: causa
remota. La causa prossima è che nel 1976 passai l'inverno a Varsavia
(quartiere Ochota, Casa dello studente) per studiare Lesmian. Quando
tornai a Milano, il nome della rivista fu inevitabile: «Niebo».
«Niebo» nasce in un momento storico cruciale (il
primo numero è del giugno 1977), sul finire di un decennio cupo,
caratterizzato da una ideologia che nel suo fanatismo più acceso
conduce al lutto e al terrore (l'assassinio di Aldo Moro è del 1978).
La poesia, parafrasando alcuni versi di Giuseppe Conte, era una
dea in esilio il cui sogno di ritornare doveva essere "indomabile"?
Bellissimi versi, quelli di Giuseppe Conte! La poesia è davvero
indomabile! Trova vie segrete per venire alla luce e sfida, magari
senza nemmeno saperlo, tutti i poteri culturali, che in quegli anni
erano davvero cupi, come hai notato, convinti che l'uomo fosse riducibile
alla sua sfera sociale. Eppure, proprio allora cominciavano a farsi
conoscere due esperienze, quella di Cristina Campo e quella di Marina
Cvetaeva, interamente estranee allo spirito dei tempi e vicine semmai
al sogno di «Niebo».
Da chi era composta la redazione? Come e da chi venivano decisi
i temi e gli autori ai quali dedicare i fascicoli? Quale era la
tiratura? Come e dove veniva diffusa la rivista?
Quelli più presenti alle riunioni di «Niebo» (che
erano aperte a tutti e si svolgevano ogni lunedì sera in Via Rosales
9, dove allora abitavo) furono Emi Rabuffetti, Antonio Mungai, Ivano
Fermini, Alberto Schieppati, Giancarlo Pontiggia, Cesare Lievi,
Marta Bertamini e Roberto Mussapi. Con loro si decideva, dopo avere
discusso i testi ricevuti, come sarebbe stato il numero seguente.
Che usciva in mille copie, con abbonati e presentazioni anche fuori
Milano. Nascevano così incontri e contatti, inviti, scambi di lettere
e opinioni.
In una recente intervista, Roberto Mussapi ha dichiarato di
essersi allora avvicinato al gruppo milanese perché «la rivista
sviluppava in modo chiaro, forte e diretto un discorso che ridimensionava
la cultura sperimentale del Gruppo '63 divenuta ormai fine a se
stessa, che dominava la poesia italiana negli anni Settanta».
Come venne accolta la nuova pubblicazione dagli intellettuali legati
alla neoavanguardia?
La neoavanguardia in quegli anni stava esaurendo la sua vitalità,
già modesta in partenza. E a noi comunque non interessava, nemmeno
come nemica. L'unico rapporto, bello e fruttuoso, fu con Antonio
Porta, che stava uscendo da quella esperienza e che partecipò a
varie riunioni della rivista. Elio Pagliarani aveva già scritto
le sue cose migliori negli anni Sessanta e come poeta era scomparso,
affogato in un mare di chiacchiere. Non c'era poi nessuna stima
per Balestrini, Giuliani e Sanguineti. Con quest'ultimo, che era
e rimane una specie di commissario del popolo, abbiamo anche avuto
un contrasto a Genova, quando ci chiamò "pericolosi discepoli dell'esistenzialismo".
Non male però come definizione, devo ammetterlo.
Hai scritto alcuni testi teorici importanti su «Altri
Termini» di Franco Cavallo, rivista partenopea legata ad un
discorso avanguardista, seppur con una libertà di movimento maggiore
per quegli scrittori non allineati con l'ideologia dominante. Anche
Giuseppe Conte inizia a pubblicare in tale sede. Esiste un filo
conduttore tra questa esperienza e la futura rivista?
Su «Altri Termini», nei primi anni Settanta, uscì
un mio scritto intitolato La gioia di Hegel, dove si mescolavano
temi esistenzialisti a temi orientali. Piacque a Giuseppe Conte,
che mi scrisse. Da lì un lungo scambio di lettere e una lunga serie
di incontri, l'inizio di una grande amicizia.
Nel testo programmatico che chiude il primo numero viene messa
in rilievo la dimensione europea della rivista, la volontà di indagare
le linee di una lirica fondata sullo "svelamento" e non sulla "fondazione"
di un linguaggio poetico. I richiami sono a Trakl, Lesmian, Benn,
Hölderlin, Bonnefoy ma anche Lucrezio, tutti scrittori legati in
qualche modo al mito, alla fiaba o anche ad un certo animismo. Credi
che nel corso dei tre anni si siano realizzati pienamente questi
presupposti?
L'idea di "svelamento" era una idea centrale di «Niebo»,
ripetuta in molte forme e situazioni. Si riagganciava alla tensione
romantica della rivista, alla visione di un mondo già popolato di
forze e di miti, che il poeta doveva scoprire. O meglio, che il
poeta doveva tradurre, cioè scoprire con rigore.
Alla fiaba, sia europea che orientale, vengono dedicati ben
due numeri monografici. Che corrispondenza si materializzava tra
favola e poesia secondo i giovani autori di «Niebo»?
C'è una netta distinzione, agli occhi di «Niebo»,
tra favola e fiaba. La prima rappresenta il versante pedagogico,
da Fedro a La Fontaine a Gianni Rodari, con tanto di morale acclusa.
La fiaba invece è il mondo inventivo e folle, incantato e visionario,
che non tira mai le conclusioni. La fiaba è Andersen, Basile, Lesmian,
insomma gli autori di «Niebo».
In quegli anni stavi traducendo L'attente, l'oubli di
Maurice Blanchot, uscito per Guanda nel 1978. Quale influenza ha
avuto sul gruppo di via Rosales lo scrittore francese, in particolare
sull'idea di un tempo «senza presente», inattuale, immobile,
al di fuori di un reale Erlebnis, dove il mito (inteso come
immutabilità circolare) entra prepotentemente nel tessuto della
poesia e alla parola viene affidata la parte rituale, il compito
di mettere ordine nel mutabile, nell'umano?
Blanchot ha accompagnato tutta l'avventura di «Niebo»,
dall'inizio alla fine. Lontano da ogni storicismo, non al passo
con i tempi, prossimo a Nietzsche, aveva mille ragioni per affascinarci.
E infatti alcuni interventi critici gli sono debitori. Più tardi,
quando la rivista volgeva al termine, ne abbiamo colto anche i limiti:
un certo contenutismo, la tendenza a leggere i poeti in senso filosofico,
a non soffermarsi più di tanto sulle singole scelte espressive,
su quei dettagli che danno guizzo, luce, suono, scatto alla poesia.
Secondo alcuni critici (recentemente Francesco Napoli in Novecento
prossimo venturo, 2005) Milo De Angelis, Giuseppe Conte e Roberto
Mussapi sarebbero gli artefici, nel panorama poetico contemporaneo,
di una "terza via" alternativa dopo la strada tracciata
dal Gruppo '63 e quella che prolunga lo sperimentalismo realistico-sociale
di Pasolini e «Officina» (più un quarto punto cardinale,
sempre presente nel secondo dopoguerra, ovvero la "linea lombarda"
di Raboni, Majorino, Neri e altri). Questa "terza via"
è stata definita ancora una volta, impropriamente, "neo-orfismo".
Cosa ne pensi?
Spesso la critica cerca analogie tra poeti che hanno fatto insieme
una rivista, hanno vissuto negli stessi luoghi, hanno condiviso
una certa idea di poesia. Nulla di più errato. Le analogie sono
imprevedibili. La poesia di Sanguineti è lontana da quella di Pagliarani,
la poesia di Pasolini è lontanissima da quella di Fortini. Non c'è
nessuna linea lombarda. Cucchi è nato dalle parti di Federigo Tozzi,
Raboni è più prossimo a Luzi che a Luciano Erba, come Neri è più
vicino a Magrelli che a Majorino. Mussapi è estraneo ai miei versi
come a quelli di Conte, e semmai si accosta a Bonnefoy o a Bigongiari,
ne condivide lo sguardo poematico e luminoso. Conte è figlio di
Lawrence e D'annunzio, ma ha anche un sotterraneo rapporto con l'avanguardia
ed è comunque quell'esperienza unica e feconda che ha nome Giuseppe
Conte.
Nello sfogliare la rivista, ci si accorge anno dopo anno della
vita editoriale piuttosto discontinua che la caratterizza: periodicità
variabile, da trimestrale a quadrimestrale, cambiamenti nella direzione,
numeri monografici annunciati e poi disattesi.... Quali sono
state le difficoltà nel dirigere una rivista letteraria alla fine
degli anni Settanta?
L'andatura discontinua, il passo sbilanciato erano inevitabili
e persino essenziali a una rivista come «Niebo», così
consegnata alla passione poetica e ai suoi vortici, estranea per
scelta a ogni sicurezza, compresa quella di trovare i soldi per
il numero successivo. Ma voglio aggiungere qualcosa che non è mai
stato detto. «Niebo», certo, era una rivista controcorrente,
in aperta polemica con lo spirito del periodo, di quegli slogan
e di quella visione politica della vita. E tuttavia era pur sempre
una rivista degli anni Settanta. Ogni riunione era aperta a tutti.
Era esposta ai venti della storia, e voleva rimanerlo. Ogni lunedì
sera, per tre anni, si incontravano persone e gruppi di tutti i
generi, persone venute lì da Milano e da fuori a parlare con noi.
«Niebo» era compatta nelle sue idee essenziali, ma non
voleva chiudersi alla folla, all'assemblea, all'agorà, al confronto
pubblico tra posizioni contrastanti. E ognuno di noi ricorda quel
discutere serrato, fino a tarda notte, nella mansarda di Via Rosales,
l'ultimo tram perso, i ragazzi che dormivano lì, il caffè all'alba,
e insomma una dimensione di comunità, di bohème e di giovinezza
che era propria di quegli anni e che noi abbiamo percorso con tutte
le forze della nostra poesia e della nostra vita.
giugno 2007
DIALOGO CON CLAUDIO
DAMIANI SU «BRACI»
a cura di Carla
Gubert
Iniziamo col parlare del titolo. Il primo nome che viene proposto
per la nascente rivista è «Aria», di cui esistono
ancora i progetti grafici del 1979 conservati da Mauro Biuzzi. Il
termine ha certamente una forte implicazione spirituale, simbolo di
elevazione dalla terra al cielo; allo stesso tempo sembra sottolineare
anche il desiderio di liberare la poesia dallo spazio angusto e saturato
nella quale era stata rinchiusa, per farla germinare in un contesto
nuovo, dal punto di vista storico e artistico. La scelta cade invece
su "Braci", fondata nel novembre del 1980, con una connotazione
forse più polemica, provocatoria se pensiamo ai versi di Inverno
di Beppe Salvia, sul secondo numero («si può vivere in
una gabbia di tizzoni infuocati»).
«Aria» fu proposto all'inizio insieme a tanti altri,
ma non ci piaceva, era ambiguo, "leggero" (il tema della
"leggerezza" infarciva il bla-bla culturale e noi ne avevamo
orrore). «Braci» invece esprimeva bene il tema della
vitalità, vivacità (la "vita nuda" per capirci)
e il voler prendere questo fuoco in mano cioè chiuderlo nella
gabbia dell'arte. Qualcuno, non di noi, ci vide il riferimento a
un mondo bruciato, finito, di cui erano rimaste solo le braci. Come
a dire: non più fuoco ora, ma solo braci. Io al contrario
ho sempre visto il permanere, nelle braci, del fuoco, anzi la funzione
essenziale di mantenere nella notte sotto la cenere il fuoco per
il giorno dopo, dunque il concetto di "tradizione" a cui
io ero molto interessato, e anche Arnaldo [Colasanti], più
che Beppe. Ma in fondo non c'era differenza tra tradizione e vita
nuda, e questa era forse l'essenza di «Braci»: noi toccavamo
le braci dei classici e ci scottavamo, ma non ce ne fregava. Nel
poemetto Il portatore di fuoco di Salvia un Prometeo ragazzo tiene
delle braci in mano: sì, una visione prometeica era dentro
di noi.
Comunque il titolo lo trovò Beppe, e andò così:
eravamo a casa mia, Arnaldo, Beppe, mi sembra anche Pino (Giuseppe
Salvatori) ed io. Io dissi: "Baci", o forse lo disse Pino.
Non ci dispiaceva, eravamo vicini. Dopo un po' io dissi "Abbracci"
(o forse lo disse Pino), anche questo non ci dispiaceva, sentivamo
che eravamo molto vicini. Poi gli occhi di Beppe si illuminarono,
e disse: "Braci".
La rivista, in chiara controtendenza, non presenta in apertura
un progetto o un manifesto programmatico, sostituiti, oltre che
da Il lume accanto allo scrittoio di Salvia, anche da quell'intervista
all'anonimo collaboratore di una casa editrice. Si voleva in questo
modo sottolineare che i canali istituzionali tendevano ad escludere
le voci non allineate? Oppure rimanere al di fuori dei meccanismi
editoriali del tempo era stata una scelta condivisa dal gruppo?
Infatti Braci viene inizialmente ciclostilata e poi stampata in
proprio...
Noi non è che non facessimo teoria, anzi ne facevamo
più degli altri, ma non la scrivevamo. Discutevamo per notti
intere, chi ci avesse sentito si sarebbe stupito che dei ragazzini
parlassero così bene, e così tanto. Avevamo trovato,
per la teoria, una lingua orale, dialogica, lontana le mille miglia
dagli strutturalismi del tempo, e dalle tarde università
medievali, vicina invece agli antichi, appunto, alla loro liberalità.
Nella scrittura critica e teoria ci sembrava che non avessero più
lingua. Era un lavoro da fare, quello di trovare una lingua alla
critica, che noi additammo. Più che Colasanti infatti, che
è rimasto sempre molto orale, 'bracesco', è un lavoro
che ha fatto a mio avviso Emanuele Trevi, venuto dopo «Braci»,
ma come se ci fosse stato.
L'intervista all'anonimo collaboratore di una casa editrice la scrivemmo
io e Beppe a quattro mani. Volevamo dire che i canali istituzionali
erano marci, corrotti. Dovevamo astenerci dalla loro frequentazione,
e questo era un bene, perché ci saremmo meglio concentrati,
avremmo avuto più silenzio e più quiete, più
tempo.
Attraverso le interviste raccolte da Flavia Giacomozzi in Campo
di Battaglia. Poeti a Roma negli anni Ottanta, Castelvecchi,
2005, emergono frammenti delle occasioni e degli incontri che favorirono
la costituzione del gruppo di giovanissimi poeti non solo di «Braci»,
ma anche di «Prato Pagano», due compagini che contemplano
quasi gli stessi nomi. Un luogo che sovente si sente nominare, quasi
una zona franca di quegli anni, è il laboratorio di poesia
di Elio Pagliarani. Vorrei che evocando ancora una volta quel crinale
di anni che preannunciavano il nuovo decennio, ti soffermassi anche
su questo aspetto. Molti scrittori, attraversando l'esperienza dell'avanguardia,
ne sono riemersi con una consapevolezza maggiore del significato
della lingua, lingua come fattore naturale e non artificio o compromissione
ideologica. Ho l'impressione altresì che ci sia ancora un
bisogno eccessivo di affermare la propria estraneità o alterità
rispetto alle esperienze coeve o immediatamente pregresse, una tendenza
a marcare le grandi fratture, i grandi spartiacque: tradizione o
avanguardia, lingua o linguaggio.
Io a 18 anni ero un avanguardista abbastanza acceso. Finchè
uno è giovane si può capire, si capisce meno dopo.
Il laboratorio di Pagliarani fu il luogo dove ci incontrammo. Era
gratuito, cosa oggi impensabile. Pagliarani con noi fu umanistico,
altro che avanguardista. Ci fece incontrare, ci incoraggiò.
Sì, ci voleva far fare le poesie-collage, ma non ci riuscì
mai, e neanche lui in fondo ci credeva . Quanto alla tendenza a
"marcare le fratture", noi sentivamo che di fratture ne
erano state marcate troppe, noi sentivamo che dovevamo riconciliarci
con il passato, e con il futuro, che dovevamo rimarginare, noi non
soltanto sentivamo fraterni e vicini, attuali, gli antichi (più
degli avanguardisti che sentivamo già polverosi e desueti),
ma (emulando Petrarca che teneva con alcuni di loro una fitta corrispondenza)
desideravamo anche essere capiti, essere letti da loro. A noi più
che dai contemporanei, ci interessava essere letti dagli antichi,
occidentali e orientali in ugual misura, e dai futuri, che consideravamo
più intelligenti, meno ideologici dei contemporanei.
Hai affermato che «Braci» non tracciò nessuna
poetica, almeno sulla carta, ma si fece al contrario luogo di incontro
tra coloro che di teoria poetica ne avevano le scatole piene. Infatti
saggi, recensioni e scritti teorici sono sporadici (e le puntualizzazioni
di Colasanti, Sul nuovo e sull'antico e i Discorsi sulla
poesia, giungono solo verso la fine). Emerge comunque un messaggio
forte, dove l'ispirazione fondante sembra essere un preciso desiderio
di rimettere al centro la parola e la lingua (liberata dall'idea
sanguinetiana che la forma del linguaggio è immediatamente
azione ideologica), come fatto etico, attraverso la riscoperta ma
anche il culto dei classici della tradizione. Una poesia lontana
dai clamori mediatici, un ritiro non privo però di serio
impegno morale. E in questo senso Beppe Salvia fu probabilmente
la vera guida del gruppo (come si intuisce dalla poesia che apre
il primo numero, Il lume accanto allo scrittoio),
viatico per compiere quel ritorno, come egli stesso ha detto, «a
immagini nitide e vive», alla «vita vera, nuda»,
alla verità e all'incanto delle cose. Evitare la ridondanza
speculativa per dare invece spazio alla pura creazione artistica
("nell'opera è l'opera" dice Salvia) era dunque
in qualche modo la vostra risposta concreta alla deriva di senso
dilagante? Quale idea di poesia vi univa e vi distingueva dal resto
del panorama letterario?
Sono d'accordo con quello che dici. Il fatto che imbarazza un
po' è che quella deriva di senso di cui parli sia rimasta,
dopo venticinque anni, tale e quale. E' cambiata la poesia, ma nessuno
se ne è accorto.
Per quanto riguarda la seconda domanda, ripeto: l'idea di poesia
che ci univa era nel non avere un'idea di poesia. Era, sostanzialmente,
il desiderio di leggerla, la poesia. Svestirsi dell'ideologia e
accogliere la poesia. E incontrammo la lingua. Fu come una nuova
scuola per noi, un abc di mutuo insegnamento, un "non è
mai troppo tardi" senza maestri in carne ed ossa, ma con solo
testi, un po' come successe agli antichi umanisti italiani.
Pensando all'esperienza suggestiva delle letture notturne in
luoghi che probabilmente assumevano una valenza rituale e magica,
non si può non pensare a quella lunga tradizione, che affonda
le radici nell'antichità, delle sette poetiche nelle quali
la stessa fruizione della poesia aveva qualcosa di orfico, di evocativo,
di iniziatico...
Io ero innamorato del teatrino romano di Tusculum, una specie
di Fraturno architettonico, ed ebbi l'idea di fare lì una
lettura notturna, al lume della luna. Era una notte di settembre,
20 o 21, di inizio autunno. Non chiedemmo permessi né niente,
andammo lì, un centinaio di persone (c'erano anche molti
amici artisti, Levini, Pizzicannella e tanti altri.). Unica cosa
che ci portammo, una piccola pila nera, che conservo ancora (me
l'ha rotta recentemente qualcuno dei miei figli), ma la usammo poco
perché alla luce della luna si leggeva benissimo. Ricordo
una lettura bellissima, diurna però, nell'antro della ninfa
Egeria nei pressi dell'Appia antica, che organizzai insieme a Giacomo
Rech, e altre letture tra i ruderi, (io e Giacomo ritenevamo un
insulto, per la libertà religiosa, che si dovesse pagare
il biglietto per recarsi nei templi del Foro Romano), ma le nostre
letture erano ovunque, nelle case, nelle macchine, per strada, cioè
non erano spettacoli, ma erano incontri, comunità. Non di
setta segreta, però: la setta elabora un codice sopra la
lingua, per nascondersi a lei. Noi cercavamo la lingua, dunque la
chiarezza, la naturalezza, il contrario dell'oscurità, del
"trobar clous", degli "artifici" dei provenzali
ridicolizzati da Petrarca.
Le riviste tendono solitamente a darsi dei numi tutelari, dei
maestri, possibilmente di respiro internazionale. Su «Braci»,
salvo l'epigrafe di Seneca ("La virtù basta, anzi sovrabbonda,
alla felicità della vita"), non esistono numeri monografici
dedicati a qualche scrittore in particolare, mentre compaiono le
tue traduzioni delle Quattro poesie di Mei Yao Ch'en, Áida
nello specchio del poeta iraniano Ahmade Shamlo e Tre poeti
vittoriani (George Meredith, Elizabeth Barrett Browning, Gerard
Manley Hopkins) nella versione di Albinati. Quali erano i maestri
in comune, quali le braci dalle quali far riavvampare la scrittura
poetica?
I maestri in comune erano fondamentalmente i classici in generale,
quelli italiani dei secoli d'oro, i secoli della lingua, anzitutto,
da noi tutti venerati, e i latini e greci (io avevo già la
fissa dei classici cinesi). Dei moderni, anziché Leopardi,
mettevamo al centro Pascoli e D'Annunzio (Beppe e io soprattutto),
ma ad esempio eravamo tutti d'accordo su Keats, con la sua vivacità
e immediatezza e il suo classicismo di fanciullo. C'erano, sì,
varie differenze, scudiero dei latini ero più che altro io,
gli elegiaci soprattutto, Giselda Pontesilli era più platonizzante,
Gino era più per Carducci che per Pascoli, più per
Rosmini e Gioberti, Arnaldo spaziava nella teologia universale.
Guardavamo però tutti alla civiltà umanistica e alla
"gentilezza italiana" come a un faro accecante.
Tra gli italiani recuperati al presente ci sono anche i poeti
di quella tradizione parallela che Pasolini definì "antinovecentista"
e che principia con Pascoli per giungere a Saba, Penna, Caproni
ma anche Sbarbaro e in parte Ungaretti...
Sì. Caproni, ma anche gli altri che hai detto, preludono
alla riscoperta di Petrarca, al ritorno brutale ai classici, senza
più Novecento, in cui eravamo gettati noi.
La prima recensione, in forma lirica, è per mano di Beppe
Salvia, il quale rende omaggio a Emilio Cecchi e alla sua lettura
del romanticismo inglese. Cecchi, come noto, è colui che
ha portato la forma saggistica in Italia a conflare con lo stile
alto, non privo però di una certa ironia, della prosa d'arte,
con risultati ancora oggi non del tutto esplorati. Questo particolare
stile italiano, annichilato grazie ai numerosi detrattori durante
gli anni Sessanta e Settanta, pare di rileggerlo ancora in alcuni
poèmes en prose e prose liriche da voi pubblicati
diffusamente sulle pagine di «Braci».
Il periodo vociano, con la sua prosa chiara, morale, con Sbarbaro,
con Ungaretti, era quello del '900 che sentivamo più vicino.
Serra era un nostro idolo, su lui eravamo d'accordo tutti. Beppe
si spingeva anche fino a Cecchi, alla sua pagina colta, Goroni arrivava
ancora oltre, fino a Carlo Bo. Anche di Landolfi eravamo tutti innamorati.
Sentivamo che la grande prosa italiana dei secoli d'oro era sempre
viva, anche nel '900.
La rivista cambia formato e contenuto varie volte nel corso
dei quattro anni di vita: dapprima si pubblicano solo testi poetici
prevalentemente del gruppo fondatore, Damiani, Salvia, Colasanti,
Salvatori, Scartaghiande, poi il terzo numero, innovativo anche
nella grafica, dedicato ampiamente al Teatrino Paralitico
di Mauro Biuzzi. Recensioni e saggistica trovano spazio solo dopo
alcuni anni. Anche il paratesto muta nel tempo: il quarto fascicolo
del dicembre 1981 reca, ad un anno dalla fondazione della rivista,
il sottotitolo "giornale di pura poesia". L'indicazione,
forse non da tutti condivisa, decade già con il numero successivo,
mentre l'ultimo fascicolo prima della breve svolta editoriale promette,
in attesa di un editore o di un mecenate, di incarnare ironicamente
"il giornale della nuova letteratura". Il n. 0 del 1984,
affidato ad una stampa tipografica professionale, inaugura una nuova
serie e "Braci" si stempera in un più generico
"Trimestrale di nuova letteratura". Come avveniva la programmazione
della rivista? Come e da chi venivano decisi i temi o gli autori
da pubblicare? Perché questi continui cambiamenti?
A fare la rivista concretamente eravamo più di tutti
Beppe e io, anche Lodoli, che entrò al quinto numero, era
molto attivo, ma alle discussioni partecipavano tutti i redattori,
e anche alcuni non in redazione ma importanti per la rivista, come
Giuliano Goroni o Giselda Pontesilli. Tra i fondatori, che non hai
nominato, e sempre in redazione, c'era anche Paolo Del Colle. Le
decisioni le prendevamo insieme, nascevano dal dialogo, Braci era
soprattutto dialogo, desiderio di silenzio, di studio, desiderio
di sedersi e capire, imparare.
Sebbene la rivista sia stampata in proprio e non espliciti come
detto un programma preciso, attrae però evidentemente l'attenzione
e comincia a circolare e ad accogliere scrittori piuttosto noti:
Andrea Zanzotto, Carlo Betocchi e Amelia Rosselli, che dona un testo
ancora inedito a lei particolarmente caro, Diario ottuso
del 1968. Allo stesso tempo cessa le pubblicazioni, dopo quattro
anni, proprio nel momento in cui il disegno si fa più ampio,
la rivista trova un editore e una maggiore diffusione... Perché
termina l'esperienza di «Braci» e che rapporto c'e con
altri periodici romani di ricerca poetica, ad esempio "Prato
Pagano" cui compari come collaboratore fino al 1988, pubblicando
anche la plaquette Fraturno?
Termina perché era autogestita, e, fattasi più
voluminosa e impegnativa come lavoro, diventava complicato per noi
gestirla. L'editore era un tipografo, dovevamo fare tutto noi, io
specialmente, era anche un problema economico. Siccome poi «Prato
Pagano» almanacco aveva un editore che metteva lui le spese,
siamo praticamente confluiti lì. C'erano, oltre a Gabriella
Sica, due scrittori, Pietro Tripodo e Giacomo Rech, ritrovati in
un certo qual senso perché erano già a Sant'Agata,
e poi si erano persi per cause diverse. Gabriella Sica era la direttrice
(lei conosceva personalmente l'editore, Luigi Abete, che stampava
la rivista nei tempi morti della sua immensa tipografia), ma i numeri,
come in «Braci», nascevano collegialmente, molto democraticamente,
da continue discussioni. Ci riunivamo da Gabriella a Vicolo del
Bologna, io e Beppe sempre, molto spesso Lodoli e Gino, un po' meno
Colasanti.
La rivista milanese diretta da Milo De Angelis, «Niebo»,
esaurisce la propria esperienza culturale nel 1980, anno della fondazione
di «Braci». È stato ribadito più volte
che essa ha costituito un modello da imitare per la nuova generazione
di poeti. Cosa ne pensi, si può affermare che il suo messaggio
sia stato in qualche modo accolto dal vostro gruppo?
Stimavamo molto Milo De Angelis, e l'esperienza di «Niebo»,
anche come comunità poetica, è stata senz'altro un
precedente per noi, un riferimento. Però la nostra idea di
chiarezza e di lingua era lontana dall'alone neoermetico, orfico,
che circondava «Niebo», l'ermetismo per noi era da dimenticare,
non da riscoprire. I neoavanguardisti ritenevano di aver superato
l'ermetismo, ma molto giustamente Emanuele Trevi (nel volume di
Flavia Giacomozzi che hai citato prima) ha detto che l'ermetismo
non l'avevano superato loro, ma noi.
In un articolo pubblicato sulla rivista «Capoverso»
(luglio-dicembre 2005), Giselda Pontesilli, animatrice della rivista,
compie una riflessione sul valore, anche utopico, che ebbe l'idea
di comunità per i poeti di «Braci». Una comunità
«di vita, di lingua, di costume, di fede» che forse
non poté sostenere il confronto con la deriva solipsistica
della realtà contemporanea. Esempio, a suo giudizio, fu la
morte di Beppe Salvia. Come è cambiata oggi l'idea di azione
poetica, ovvero della possibilità insita nella funzione poetica
di farsi guida intellettuale dell'uomo civile? Sarebbe ancora possibile
fondare un gruppo di lavoro incisivo e compatto sul presente?
Per l'idea comunitaria, a cui erano molto attaccati Gino, Giselda
e Arnaldo, meno Beppe e io, meno di tutti Goroni, il suicidio di
Beppe fu un "fallimento" (per usare la parola usata da
Giselda). Ma per l'idea comunitaria, appunto, che era a mio avviso
piuttosto fragile. Forte era la nostra fede nella poesia, nella
sua resistenza rispetto alla fragilità del vivere, fragilità
che non poteva essere impedita da nessuna comunità. Come
dice perfettamente Beppe nel primo numero: "poiché vogliamo
ridare allo scritto, un pensiero vergato perché rimanga,
il suo più immediato valore che è quello di partecipare
esso stesso del vivere, e far vivere anche noi che fuggiamo altrimenti"
e più avanti: "Poiché un volto pur bello, e se
bello ancor più, ha la virtù di sparire".
Per quanto riguarda l'oggi, io, insieme a molti giovani che ammiro,
sto fondando un giornale web che si intitolerà «Nuove
Braci», e il sottotitolo è: "giornale di educazione".
settembre 2007